Europa: bloccare le
riforme strutturali e far ripartire gli investimenti pubblici
(Fonte: “Social Europe Journal” 17/09/2014)
La crescita lenta nella “zona euro” è diventata endemica dall'inizio della crisi del debito sovrano
nel 2010. Il dato è clamoroso se confrontato con l'esperienza di crescita dei paesi che
aderiscono alla UE ma non appartengono
all'area Euro. Ciò che colpisce è che fino alla crisi del debito sovrano dell'Eurozona del 2010 le esperienze di
crescita dei paesi UE zona euro e
non zona euro erano
molto simili. Entrambi i gruppi
di paesi hanno visto infatti il crollo dei loro indici di sviluppo, trasformatosi in una
profonda recessione nel 2008-09. Entrambi
recuperarono in tempi relativamente
brevi nel 2010. Dal 2011, tuttavia, i due gruppi cominciano
a distanziarsi. La zona euro ha
sperimentato una nuova recessione e da allora ha registrato un tasso di crescita che, in media, è stato del 2% al di sotto
del tasso di crescita dei paesi dell'UE non-euro.
Che cosa è successo dall'inizio della crisi del debito sovrano che ha portato a un declino sistematico della crescita economica nella zona euro rispetto ai soci UE non-Euro?
A Bruxelles, Francoforte e Berlino si
è soliti dire che questa bassa performance di crescita della zona euro è dovuta alle rigidità strutturali. In altre parole, la
bassa crescita della zona euro evidenzierebbe un problema dal lato dell'offerta. Basterebbe rendere l'offerta più flessibile (ad esempio, salari minimi
più bassi, meno sussidi di disoccupazione, più facile licenziamento di lavoratori) e la
crescita riprenderebbe a correre.
Questa diagnosi del problema della crescita dell'Eurozona non ha senso. Basti infatti considerare che i paesi della
zona euro si sono ripresi dalla
recessione del 2008-09 esattamente come i paesi non euro.
Se c’è problema
di tipo strutturale, questo esisteva
anche nel 2008-09. Eppure queste rigidità strutturali non hanno impedito ai paesi
dell'Eurozona di recuperare rapidamente
nel 2010. Perché queste rigidità strutturali dal 2011 sarebbero divenute
improvvisamente causa di minore crescita
nella zona euro (e non in quella non-euro), mentre fino al 2010
questo ruolo non l’hanno giocato?
Del resto questa storia non regge neanche
dal lato dell'offerta, anche se continua
a fornire le basi intellettuali con
cui i politici dell'Eurozona
insistono sulle riforme strutturali.
C'è una
spiegazione migliore per la crescita a macchia di leopardo dell'Eurozona. Ed è che la gestione della
domanda nella zona euro è stata
drammaticamente sbagliata dall'inizio della crisi del debito sovrano.
Quest'ultima ha dato ai politici dell'Eurozona il pretesto per imporre forme severe di austerità ai Paesi periferici
della zona euro e restrizioni di bilancio a tutti gli altri. Questo approccio è basato sul mancato riconoscimento che
la zona euro era ancora nella morsa della dinamica di riduzione della
leva finanziaria. Dopo le esplosioni
del debito nel settore privato negli anni del boom, gli attori privati erano ancora in
una fase di riduzione dei livelli di indebitamento. Ne
sono conseguite le politiche di rigore, in
ragione delle quali sia il settore pubblico sia il privato hanno appunto cercato di ridurre la leva finanziaria. Questo ha favorito la diffusione di un pregiudizio deflazionistico
nella zona euro che ha portato a una nuova recessione nel corso 2012-13, il secondo dall’inizio
della crisi finanziaria nel 2007-‘8.
Una delle manifestazioni più spettacolari di un programma di austerità
sconsiderato è stato il forte calo degli investimenti pubblici nella zona euro. Dopo la crisi del debito sovrano i governi dell'Eurozona,
in nome dell’austerità, hanno infatti deciso di ridurre drasticamente
gli investimenti pubblici. Come potevano
sperare che questo avrebbe potuto
promuovere la crescita economica rimarrà un mistero. In
realtà, una tale
riduzione degli investimenti pubblici serve
solo a ridurre la produzione e gli approvvigionamenti, spingendoli
su livelli sempre più bassi.
Di qui la domanda: che fare oggi? I governi della
zona euro, in particolare nei
paesi membri del Nord Europa, hanno
la fortuna di aver a che fare con tassi
di interesse storicamente bassi a
lungo termine. Il governo tedesco,
per esempio, può
prendere in prestito a meno di 1%
e con scadenza a 10 anni. Ora questi tassi di interesse bassi danno ai governi la
possibilità di avviare un
importante programma di investimenti. Il denaro può essere preso in prestito quasi gratis, proprio mentre in molti paesi cresce
la necessità di investire nel
settore energetico, nei sistemi
di trasporto pubblico e nell'ambiente.
È quindi il momento di invertire le decisioni sconsiderate assunte
dal 2010 con la riduzione degli
investimenti pubblici. E può
essere fatto a costi molto bassi. Il paese che dovrebbe trascinare
questo programma di investimenti pubblici è proprio la Germania. Gli investimenti pubblici come percentuale
del PIL in Germania
sono tra i più bassi di tutti i paesi della zona euro. Nel 2013 gli investimenti pubblici tedeschi ammontavano ad un nudo 1,6% del PIL contro il 2,3%
del resto della zona euro.
Un nuovo programma di investimenti pubblici dovrebbe fare due cose: stimolare la domanda aggregata nel breve periodo e contribuire a tirare fuori la zona euro dal suo stato letargico. Nel lungo periodo contribuirebbe a sollevare il potenziale di crescita nella zona euro.
Un nuovo programma di investimenti pubblici dovrebbe fare due cose: stimolare la domanda aggregata nel breve periodo e contribuire a tirare fuori la zona euro dal suo stato letargico. Nel lungo periodo contribuirebbe a sollevare il potenziale di crescita nella zona euro.
E invece l’opinione prevalente in molti paesi è ancora
che i governi non dovrebbero aumentare i loro livelli di debito perché questo costituirebbe un onere sulle
spalle delle generazioni future. La
verità è che le generazioni future ereditano non solo i debiti,
ma anche i beni creati dai governo precedenti. Le generazioni future
non capirebbero perché questi governi non hanno investito in attività produttive che
avrebbero potuto migliorare il loro benessere, tanto più che questi governi potrebbero
farlo a costi di finanziamento nel lungo periodo bassi.
[1] Economista e uomo politico
belga, insegna alla London School of Economics. Traduzione dall’inglese di
Fabio Vander
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